Storie di Dislocamento

La curatrice Izabela Anna Moren in conversazione con il fotografo Francesco Bellina

IAM

ll tema della migrazione quando ha iniziato a interessarti, in quale maniera e perché?


FB

Ho cominciato a interessarmi di immigrazione il 28 dicembre del ’99 quando avevo dieci anni perché io vivevo in un quartiere popolare a Trapani, più che altro c’era la casa di mia nonna che frequentavo, e c’era il primo CPT – Centro di Permanenza Temporanea come l’hotspot attuale, e il 28 dicembre prese fuoco una parte di questo edificio. Sono morti sei migranti. Io ero lì davanti e ho partecipato subito a tutte le iniziative di protesta di manifestazioni che c’erano. Sempre nello stesso anno ho cominciato a seguire le lezioni all’università del professore Fulvio Vassallo che ora insegna a Palermo diritto d’asilo e quindi sono entrato in questo mondo diciamo antirazzista. Infatti le prime foto che ho fatto nella mia vita sono state fatte a quel centro, foto vecchissime, durante le manifestazioni o dei migranti dietro le sbarre. Quando avevo dai 13 ai 18 anni ho lavorato nei campi come seasonal worker. Ho fatto vendemmia di uva, raccolta di meloni, ho fatto il giardiniere e mi chiamavano il dottore perché ero l’unico italiano che faceva il liceo classico mentre gli altri erano tutti magrebini. Questo mi ha consentito di vivere insieme a loro le esperienze di sfruttamento e di lavoro perché non cambiava niente tra me e loro.

Andando a Palermo a studiare mi sono affacciato immediatamente alla realtà di Ballarò perché studiavo alla biblioteca a Ballarò. Più che studiare lasciavo i libri sul tavolo, scendevo giù con la macchina fotografica. Questo mi ha consentito di entrare in contatto con le comunità africane di Palermo.


IAM

Il quartiere Ballarò di cui parlavi adesso è anche la scenografia ed il luogo di un lavoro che hai fatto per Antonio Marras, Nonostante Ballarò che è diventato in un certo modo un ritratto del tuo Palermo.


FB 

Certo perché a Marras avevo detto che le foto si fanno a casa mia – Ballarò. In realtà è stata una cosa spontanea che nasceva girando per il mercato, ogni volta che giravamo qualcuno voleva essere vestito da Marras e si proponevano loro per primi, o altrimenti c’era una ragazza che faceva le pulizie in un B&B e l’abbiamo vista l’abbiamo chiamata, e lei è uscita fuori dalla finestra si è vestita abbiamo fatto le foto. La cosa bella di questo lavoro è stata anche la spontaneità con questo fatto.

Migranti tunisini che salgono sulla nave quarantena a Lampedusa appena usciti dall’hotspot. Lampedusa, 2021.
Migranti tunisini che salgono sulla nave quarantena a Lampedusa appena usciti dall’hotspot. Lampedusa, 2021.
Migranti tunisini che salgono sulla nave quarantena a Lampedusa appena usciti dall’hotspot. Lampedusa, 2021.
Migranti tunisini che salgono sulla nave quarantena a Lampedusa appena usciti dall’hotspot. Lampedusa, 2021.

IAM

Hai fatto politica prima. Secondo te la fotografia, la documentazione, una certa vista sulle cose possono essere un modo più efficace per cambiare le cose?


FB

E strano perché quando si parla d’arte è come se si parlasse di qualcosa di astratto. Ma rispetto a quanto incide politicamente l’arte, a quel punto non diventa più astratto e la cosa più concreta che puoi fare. Invece quando fai politica ci sono dei tempi di gestazione politici. Invece con la fotografia, con l’arte e con la cultura l’impatto è immediato perché quel pugno è lo stomaco che noi cerchiamo quando facciamo un’immagine e quindi sicuramente la fotografia. Non faccio più politica nel modo canonico ma faccio politica attraverso la fotografia e secondo me è molto più efficace, anche perché non hai un pregiudizio iniziale. Quando tu incontri un politico hai un pregiudizio iniziale, se incontri un artista o se incontri un’opera quel pregiudizio non c’è.

Però se non avessi fatto politica avrei avuto molti meno contatti perché ero nell’organismo nazionale del mio partito ed avevo incontri con persone di tutto il mondo.


IAM

Quindi il tuo consiglio per giovani fotografi è di fare politica prima?


F.B.

Il mio consiglio ai giovani fotografi è di informarsi. Vedo molti lavori fatti su soggetti simili al mio da persone che però di base non sanno nulla. Per esempio, mi sono rifiutato di salire su una nave di soccorso finché non avessi attraversato un pezzo di deserto, ho detto prima vado in Africa poi vedrò la nave di soccorso. E infatti l’ho fatto nel 2019 quando i miei colleghi l’hanno fatto nel 2016. Non c’è niente di sbagliato in nessuna delle due cose, ma c’è una narrazione completamente diversa. La maggior parte dei fotografi rappresenta il migrante come una vittima. Nelle mie foto ho ho fatto sul mediterraneo i migranti sono rappresentati come eroi epici, io non ho pensato poverini sono in mezzo al mare. Ho pensato minchia questi hanno attraversato il deserto, hanno attraversato i posti di blocco di merda che vedevo io. Questi sono stati ad Agadez senza mangiare polvere, sono molto meglio di me, molto meglio di chiunque – sono dei supereroi. Quella è stata la mia narrazione ma se non fossi andato ad Agadez in Africa non avrei mai capito questa cosa.

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