Questa è casa mia: ricostruzione di un insediamento informale

Il 24 maggio 2023 veniva sgomberato l’insediamento informale alle porte di Campobello di Mazara, sorto (almeno inizialmente) per il fenomeno della raccolta delle olive. In pochi giorni le ruspe hanno buttato giù case, ristorantini e bazar, lasciando solo cumuli di legno e lamiere. In occasione dell’anniversario di questo evento, un gruppo di attivisti di “Arci Porco Rosso”, che da anni supporta le persone marginalizzate che vivono nei ghetti come quello di Campobello, cerca di rivisitare il sito con un percorso espositivo. Un’ennesima ricostruzione, stavolta immaginaria, sulle macerie politiche. 

Gli insediamenti abitativi che sorgono nelle aree rurali delle periferie del meridione d’Italia vengono sempre raccontati come delle sacche funzionali allo sfruttamento lavorativo in agricoltura. Nel caso di Campobello di Mazara, raccoglie soprattutto lavoratori per la raccolta delle olive ogni anno da settembre a novembre. Tuttavia, il luogo ha attirato anche altre persone, e intorno ad esso si è formata un’economia informale complessa. Ma cos’è davvero un insediamento informale? Chi lo abita, chi lo crea e chi lo modifica? Attraverso un percorso espositivo di “fotografie fatte male”, accompagnate da mappe, testimonianze, storie di vita, lettere, notifiche di sgombero e oggetti abbandonati, si tenterà di rievocare e raccontare un luogo che non c’è più e che era casa per tante persone. 

Yaya Njie ricorda l’insediamento informale di Campobello di Mazara. Parla di un’organizzazione complessa che ha fornito ai suoi abitanti molte cose che altrove mancavano, della libertà di movimento, del bisogno di sentirsi a casa da qualche parte, della solidarietà e dell’efficienza economica.

La prima volta che sono stato a Campobello era il 2014. A quell’epoca vivevo ancora nel CAS (nota: centro di accoglienza straordinaria) di Triscina e la prima volta che sono andato lì c’era solamente un rudere abbandonato ad Erbe Bianche che era stato occupato, ma non da tante persone, e delle tende attorno. A volte andavo dal CAS ad Erbe Bianche proprio per vedere questa gente, molti di loro erano gambiani, stavamo un po’ insieme e bevevamo  dell’attaya. Poi nel 2017 ho lasciato l’Italia per un po’ per andare a lavorare a Malta e sono tornato nel 2019, per rinnovare il permesso di soggiorno. Se nonché nel 2018 la legge è cambiata con Salvini, quindi rinnovare la protezione umanitaria era diventato molto più complicato se non impossibile. Nel 2020 poi c’è stato il covid, non era facile trovare un contratto di lavoro che permettesse di rinnovare il permesso, tra l’altro la questura mi chiedeva anche la residenza che non avevo. Ho affittato una casa a Petrosino, ma non volevano farmi il contratto di affitto, quindi ho dovuto lasciarla. A quel punto ho deciso di andare a Triscina sotto la piazza (nota: un parcheggio incompiuto occupato a quei tempi da una decina di persone il cui periodo di accoglienza in CAS era terminato)  ma ero un bel po’ stressato per tutti questi pensieri e per non trovare soluzione. E’ stata dura perché non avere il permesso di soggiorno per me voleva dire soprattutto non potere liberamente tornare in Gambia per andare a trovare la mia famiglia, e avevo perso mia madre. Da Triscina mi sono spostato nell’insediamento di Campobello che, sebbene fosse un ghetto, per tanti di noi era l’unico posto in cui ci sentivamo a casa perchè ci sentivamo in qualche modo di fare parte di una società. Fuori dal ghetto sentivamo tutte le vessazioni e gli attacchi cui eravamo soggetti, quindi dentro, al contrario, sentivamo una sorta di liberazione. A Campobello sono stato due anni e da lì sono andato a Palermo. Ho vissuto in tanti posti diversi in questi anni e una cosa la posso dire: ogni essere umano ha bisogno di libertà di movimento, anche se è povero e non ha niente in tasca, ha bisogno più di tutto della sua libertà. In questo senso, tra tutti i luoghi dove sono stato, l’esperienza del dormitorio per me è stata molto difficile perché, con tutte quelle regole e orari, devo dire che l’ho vissuta come una semiprigione. Ad esempio, oggettivamente il sotto piazza di Triscina era molto peggio, da un punto di vista materiale di condizioni di vita e me ne rendo conto, ma avevo tante persone a mio fianco e non sentivo tutta quella pressione. Campobello era più organizzato, avevi accesso a tutte le cose di cui avevo bisogno perchè c’era un’intera comunità che pensava a tutto: chi all’acqua, chi all’elettricità, chi a costruire le case, chi al cibo… anche se era un posto molto difficile era un posto in cui le persone, anche con l’esterno intendo, erano in connessione: c’era una rete e c’era la comunità che, come dicevo, ti faceva sentire a casa.

 

Giulia Gianguzza (Palermo, 1988) è operatrice sociale e attivista dello Sportello Sans-Papiers del Porco Rosso e da anni concentra la sua attività di supporto sociolegale negli insediamenti informali della Sicilia Occidentale. È anche ricercatrice dell’Università di Palermo e analizza i processi di marginalizzazione ai danni dellə abitanti dei ghetti. 

Yaya Njie (Fajikunda, 1997) è un operatore peer to peer dello Sportello Sans-Papiers del Porco Rosso di Palermo. Lavora a sostegno di persone con background migratorio che versano in condizioni di precarietà sociosanitaria, come nel ghetto di Campobello di Mazara, dove anch’egli ha vissuto.