Perdere i confini, muoversi con le onde

In foto: Una vista sul fondo dell’oceano Pacifico, al largo delle coste delle Hawaii. Dati sonar multiraggio. © Territorial Agency

“L’acqua cancella ogni confine; e visto che tutti i mari del mondo dialogano con tutti gli altri mari, i confini che la storia ha tracciato nel mare sono puramente concettuali, o traggono la loro geometria da un qualche aspetto della costa più vicina”, scrive Roberto Casati nel suo libro Oceano. Una navigazione filosofica.


Nonostante le caratteristiche di mari e oceani, sia quelle ecologiche che quelle politico-sociali, siano oggi in costante mutamento, la loro conoscenza non solo risulta parziale ma è “paralizzata tra forme di segregazione culturale consolidate e separazione tra attività umane di terra e di mare” (Ocean Space). La prospettiva terracentrica considera ciò che accade negli spazi acquatici come qualcosa di marginale rispetto a ciò che succede a terra, dove vive la nostra società. Per affrontare le importanti trasformazioni in atto, diviene necessario ripensare tale relazione tra terra e mare e iniziare a concepire questi spazi acquatici in termini sociali, come dei corpi sensibili che reagiscono alle attività umane “terrene” e quindi come spazi della società, piuttosto che spazi utilizzati dalla società.
Diversi sono i progetti artistici che vogliono offrire un contributo al dibattito in un’ottica di superamento della divisione terra/mare, cercando vivamente una rottura con quella separazione che disarticola il discorso in natura/cultura. Abbiamo raccolto quattro progetti che, pur lavorando su piani differenti e con metodologie diverse, sono accomunati dalla volontà di portare – e in alcuni casi ‘riportare’ – le pratiche marittime al centro del discorso contemporaneo, facendo costantemente dialogare ciò che succede ‘a terra’ con ciò che succede ‘in acqua’: ripensare questa relazione e abbandonare il presupposto secondo cui l’esistenza della società esiste solo là dove fisicamente vivono gli esseri umani, è possibile solo se prima immaginiamo una vita nella quale l’Oceano è intrinseco.

Dineo Seshee Bopape, The Soul Expanding Ocean #3


Veduta della mostra The Soul Expanding Ocean #3: Dineo Seshee Bopape, Ocean Space, Venezia, 2022. Commissionato e prodotto da TBA21-Academy. © Matteo De Fina


L’esposizione The Soul Expanding Ocean #3, dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape è curata da Chus Martínez negli spazi di Ocean Space (Venezia). Il lavoro, commissionato da TBA21-Academy, è frutto di un viaggio alle Isole Salomone, da dove l’artista fa rotta verso le piantagioni del Mississippi fino alla Giamaica, per poi fare ritorno a casa, in Sudafrica. Da questo viaggio nasce un progetto che ripercorre la storia della tratta transatlantica degli schiavi e che guarda all’Oceano come a un deposito di storie coloniali. Storie che sono raccontate da microrganismi, da rocce e da alghe, da onde e da voci che si muovono con esse. È un’opera che ci insegna a comprendere che “i tempi antichi e leggendari non appartengono al passato, perché l’epoca coloniale dell’oppressione non è storia passata, come non lo sono distruzione e sfruttamento delle risorse”, scrive la curatrice Chus Martínez.
The Soul Expanding Ocean #3 un ulteriore passo verso l’unione tra la terra e la memoria degli oceani: essi contengono parte della storia dell’umanità e in quanto tali, proprio come la stessa opera ci invita a fare, vanno ascoltati.

Carlos Casas, ARAL. Fishing in an Invisible Sea


Carlos Casas, ARAL. FISHING IN AN INVISIBLE SEA, Moynak. Uzbekistan. 2004, DVCAM Color, 52 min.

Carlos Casas ha realizzato nel 2004 un film documentario ambientato in Uzbekistan, più precisamente nei dintorni di Aral, a Monyak, che esplora la vita di tre generazioni di pescatori – gli ultimi rimasti. È un viaggio all’interno della loro quotidianità, fatta di attese e di lotte per sopravvivere in uno dei luoghi più colpiti dal disastro ambientale. Il Lago d’Aral, oggi uno dei luoghi più remoti del pianeta, era originariamente uno dei laghi più grandi del mondo: le sue acque dividevano le repubbliche socialiste sovietiche e gli attuali Stati dell’Uzbekistan e del Kazakistan. Negli anni ottanta le sue acque furono ampiamente sfruttate per alimentare la monocultura di cotone, un abuso che causò una vasta riduzione delle sue dimensioni, fino alla sua (quasi) scomparsa.
Casas racconta di aver voluto ritrarre “il processo di morte di un mare attraverso le ultime tre generazioni colpite, dal vecchio pescatore, in pensione che viveva il mare, alla generazione adulta che sopravvive ancora attraverso la pesca nei laghi rimasti, fino alla generazione del deserto che sopravvive dal nulla, cercando di mantenere le tradizioni e la speranza di un ritorno di un futuro più pieno di speranza”.

Collettivo Barena Bianca e Ilaria Genovesio, Never let me Gò, Tunaight


Estratto dal video di Never let me Gò, Tunaight, Barena Bianca.


Il collettivo Barena Bianca, formato da Fabio Cavallari e Pietro Consolandi nell’estate del 2018, nasce nella laguna di Venezia con lo scopo di portare alla luce molte delle sue problematiche ecologiche e sociologiche, adottando la Barena, tipica salina veneziana, essenziale alla sopravvivenza della città, come suo emblema.
Il progetto Never let me Gò, Tunaight, in collaborazione con Ilaria Genovesio, crea continuità tra le città di Istanbul e Venezia, attraverso l’individuazione di una o più specie marine estinte e aliene che accomunano il Mar di Marmara e l’area marina del Mar Adriatico settentrionale e della Laguna Veneta. Una ricerca che ha portato alla luce questioni urgenti – e condivise nelle due città – quali l’inquinamento, la globalizzazione, i cambiamenti climatici, la pesca eccessiva, l’alimentazione, il turismo e la biodiversità.
“Durante il periodo a PASAJ abbiamo realizzato delle sculture mobili e volanti ritraenti un ghiozzo (gò in veneziano), un tonno e delle noci di mare – una specie invasiva, uno ctenoforo che si sviluppa in acque calde danneggiando la fauna marina locale. Due pesci iconici, il Gò per Venezia e il Tonno per Istanbul, presenti in entrambe le acque e accomunati da passati gloriosi ed un presente alquanto critico e precario. Al contrario le noci di mare sono l’immagine di un presente contaminato, in contrasto con il fragile equilibrio dei mari, e che invade in maniera nociva ecosistemi fragili come la Laguna di Venezia e il Bosforo”.

Salvatore Iaconesi and Oriana Persico, U-DATInos. Sensibili all’acqua


L’Ecomuseo Mare Memoria Viva è uno spazio di comunità, creato insieme agli abitanti delle borgate marinare, che ospita una narrazione corale e che ha dato l’avvio ad un percorso di riscoperta e riappropriazione della relazione tra gli abitanti di Palermo e il loro mare. Il mare a Palermo esiste ancora? Negli ultimi decenni, il rapporto tra la città di Palermo e il suo mare è diventato controverso. Il mare che bagna il capoluogo siciliano è stato intensamente sfruttato, e questo ha portato sulla costa rovine e degrado. Ridare a Palermo il suo mare è quindi la missione dell’Ecomuseo.
Questo lavoro di cura, lo scorso anno, si è spinto fino al fiume Oreto dove è stata realizzata un’opera d’arte dedicata al fiume stesso. L’opera in questione si chiama U-DATInos. Sensibili all’acqua ed è stata ideata dal duo di artisti Salvatore Iaconesi e Oriana Persico. Si tratta di uno Uno spazio meditativo per ascoltare l’acqua di Palermo e interrogarsi sul futuro del Fiume Oreto. Una piattaforma di espressione e attivazione per gli abitanti e le comunità della città. “Sulla foce di questo fiume, immergendoci in questo complesso territorio, proveremo a sperimentare nuove ritualità che ci connettano alle acque di Palermo: per diventare sensibili all’ambiente e immaginare nuove alleanze tra attori umani e non umani, arte e scienza, innovazione e società” scrivono gli artisti.


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