Irene Coppola in conversazione con Elisa Capellini
Irene Coppola nasce a Palermo nel 1991. Artista con sede a Palermo e Milano, fa parte della piattaforma Room to Bloom. Dopo aver completato gli studi accademici presso la NABA di Milano e l’Accademia Willem De Kooning di Rotterdam, ha partecipato a mostre e progetti nazionali e internazionali, tra cui: AndAndAnd per Documenta13 a Kassel, il festival Do Disturb al Palais De Tokyo di Parigi, Dolomiti Contemporanee a Pieve di Cadore, Flight Sketches al Cercle Cité di Lussemburgo, Hanging Garden all’Office Project Room di Milano, Badly Buried alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Guarene, La Natura e la Preda al PAV di Torino. Nel 2019 ha vinto la sesta edizione dell’Italian Council per il progetto di residenza artistica La Wayaka Current Tropic 08°N con sede nella comunità indigena di Guna Yala (Panama). Nel 2020 è tra gli artisti selezionati per Cantica21. Italian Contemporary Art Everywhere, un progetto di committenza pubblico, promosso dalla Direzione Generale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. L’opera prodotta è stata ospitata presso l’Istituto Italiano di Cultura a Dakar, dove l’artista ha realizzato un nuovo progetto di residenza, parte degli eventi collaterali della Biennale Dak’Art 2022.
Nel 2021 l’artista viene invitata a Palermo per il programma Room To Bloom Pavilion, a cura di Marcela Caldas, in cui 35 artiste provenienti da tutto il mondo hanno collaborato per aprire nuovi spazi di sperimentazione e discussione attorno al ruolo dell’arte nella società, attraverso una prospettiva transfemminista e decoloniale. Cari corpi vivi…, è il workshop che Irene Coppola realizza in questa occasione presso l’Orto Botanico di Palermo, dove mette in relazione il tema della monumentalità con il suo archivio di frammenti vegetali. Partendo dalla realizzazione di calchi effimeri sui monumenti, l’artista inizia nel 2016 una riflessione tuttora aperta sul rapporto tra corpo e memoria collettiva.
Elisa Capellini: In seguito alle numerose vicende legate all’abbattimento della statuaria presente oggi nello spazio pubblico delle nostre città, si sono manifestati tre atteggiamenti prevalenti: c’è chi spinge per la conservazione del patrimonio così com’è, lì dov’è, in quanto simbolo e testimonianza – sia estetica che storico-culturale – della storia. Dal lato opposto si posizionano coloro che le statue le vogliono distruggere, proprio in quanto simbolo e testimonianza di quella stessa storia, dalla quale non si sentono in alcun modo rappresentati. Nel mezzo si collocano coloro che vedono nella museificazione del monumento celebrativo un giusto compromesso. Tutte e tre le posizioni presentano però delle criticità: nel primo caso si tende ad appiattire tutti i discorsi emersi attorno alla rivendicazione dello spazio pubblico. Nel secondo caso, invece, mi chiedo se non si rischia solamente di “eliminare dalla visuale” un nemico che però continuerebbe ad esistere, in altre forme, nella nostra società. Nel terzo caso, mi pongo due interrogativi. Il primo è un problema di tipo pratico: in quale spazio del museo dovrebbero essere collocati gli oggetti in questione? È chiaro che i limiti spaziali del museo porterebbero a una selezione degli oggetti da esporre, quali sarebbero quindi i criteri di tale selezione? Il secondo dubbio invece riguarda il ruolo, talvolta problematico, delle istituzioni culturali in una società globale e gli strumenti in loro possesso per operare una ri-narrazione dei monumenti celebrativi. Inoltre, considerando che il monumento viene progettato per uno spazio pubblico, trasportarlo all’interno di uno spazio espositivo, porterebbe ad una decontestualizzazione dell’opera, più che a una sua ricontestualizzazione, come in molti sostengono. Insomma, risulta complicato orientarsi verso una soluzione definitiva e condivisa. Credi che la tua pratica possa suggerire una quarta via oppure pensi che possa inserirsi all’interno di uno dei posizionamenti sopracitati?
Irene Coppola: Innanzitutto è importante fare chiarezza sulla tipologia di monumenti di cui parliamo. Hai usato il termine patrimonio (dal latino patrimonium, derivato da pater, ‘padre’, e munus, ‘compito’; dapprima col significato di ‘compito del padre’ poi con quello di ‘cose appartenenti al padre’) la cui etimologia non a caso è un evidente riferimento alla società patriarcale che abbiamo ereditato, che oggi indica più genericamente tutti i beni posseduti da un soggetto giuridico o dallo Stato. Tornando ai monumenti, anche questo termine rimane piuttosto generico riferendosi oggi a tutte le costruzioni di “valore” artistico-storico, finché non vi associamo la parola celebrativi, di cui fanno parte anche le sculture ad immagine e somiglianza degli imperatori, dei generali vittoriosi, dei dominatori.
Vedi, il punto è che si dà per scontato che questi siano dati negli spazi pubblici come giganti immobili su piedistalli che amplificano la distanza e il senso di distacco dalla nostra condizione umana. Non ci si pone il problema di chi, come e perché sia lì rappresentato, ma ci si preoccupa dell’incolumità di una narrazione calata dall’alto, con una specifica simbologia del potere, che vuole essere l’unica insostituibile, messa a valore dalla storia. I monumenti celebrativi, poi, non fanno altro che anestetizzare personaggi e fatti storici che sono carichi di violenza, leggittimandoli come “naturali” o “normali”, e questo è preoccupante.
La mia azione – fragile, temporanea, ludica – sui monumenti celebrativi, è iniziata nel 2016 prendendo coscienza di tutto ciò. E’ un processo che personalmente mi ha permesso di avvicinarmi a quello spazio di riflessione critica che ha origine proprio dai legittimi movimenti di contestazione sociale che sono sempre più diffusi nel mondo. Tornando alla tua domanda quindi, non credo sia necessario definirla all’interno di un dibattito che riguarda il cancellare o meno la presenza dei monumenti celebrativi, o addirittura di musealizzarli (ennesima operazione feticcia e sterile perché di natura puramente conservativa). La mia ricerca sui monumenti si situa all’interno di un movimento globale di pratiche e azioni artistiche che intendono sovvertire la presunta e arrogante verità di questi uomini di bronzo, per fare della memoria una concreta pratica di vita.
Nella mia pratica artistica, più in generale, l’attitudine scultorea mi permette di dare una nuova pelle ai soggetti che osservo e di trattenere una forma residua della natura, di un territorio, di un corpo dove il display dell’opera intende agire come dispositivo di relazione, è un invito a posizionarsi.
EC: All’interno del dibattitto contemporaneo sul tema della monumentalità, il ruolo dello spazio pubblico assume una posizione rilevante. Lo spazio pubblico che accoglie il monumento viene infatti plasmato dalla sua presenza costante. Secondo te, azioni come l’alterazione e l’eliminazione fisica dell’oggetto-monumento, che tipo di processi andrebbero ad innescare? La sua sola rimozione – o alterazione – sarebbe in grado di modificare i connotati dello spazio pubblico che lo ha ospitato per tutto questo tempo, così da renderlo uno spazio più orizzontale e inclusivo?
IC: Questa ossessione contemporanea di preservare senza trasformare nulla è un grande limite. Vengo da una città in cui, nella storia, si sono susseguiti tanti popoli e tante culture, che non hanno sovrascritto del tutto la memoria del territorio ma sono state capaci di reinventare e arricchire gli usi, le forme e le tradizioni locali finché non sono arrivati gli anni 70, quelli della speculazione edilizia mafiosa del Sacco di Palermo.
Esistono poi molti modi per celebrare, o meglio, agire la memoria, che passano attraverso rituali collettivi o forme anche immateriali. Penso alla comunità indigena Guna, nell’arcipelago delle San Blas di Panama, dove la danza, il canto e la mitologia hanno ancora un ruolo fondamentale nella trasmissione del sapere e nell’orientare i rapporti sociali e politici, mantenendo una relazione con il sacro che la società capitalista ha trasformato in mero bene di consumo.
Forse iniziare a chiedersi perché vengano collocate – oltre al perché vengano rimosse – le statue celebrative nello spazio pubblico può aiutarci a trovare quella distanza necessaria a disaffezionarci da certe presenze ingombranti e ad immaginare nuove forme di “memoriali” che ci siano più vicine, più corrispondenti. Molte proposte arrivano dall’arte militante. Cito, tra le tante, quella di Ivan Argote (un’artista colombiano che ho scoperto recentemente con cui sento moltissime affinità su questi temi) che da 15 anni lavora sui “living monuments” partecipando attivamente al dibattito decoloniale nei territori dell’America Latina.
EC: La debolezza del monumento celebrativo risiede proprio nella sua immutabilità. “Anche le statue muoiono” perché il mondo cambia ma loro rimangono lì, eterne, statiche, imponenti: paradossalmente, è proprio la loro pretesa di eternità a causarne la morte. Nel testo Cari corpi vivi…, nel quale ripercorri una parte della tua ricerca artistica legata alla ri-narrazione della statuaria celebrativa, scrivi che “il leone è ferito”. La tua intenzione è curiosa: non cerchi la sua morte, vuoi ferirlo. Da questo punto di vista l’approccio che adotti è molto distante da quelle azioni eroiche – o meglio, antieroiche – e distruttive che sono oggi al centro del dibattito. La tua sembra quasi una collaborazione creativa con il monumento. In un contesto in cui la monumentalità non può più essere pensata come una forma definitiva e in cui servono strumenti aggiornati che permettano al monumento di essere ‘umano’ e ‘nomade’, non solo fisicamente ma anche concettualmente, attraverso la pratica del calco, tu offri all’opera l’occasione di rinarrarsi e di essere mobile, quindi fragile e quindi umana. Sempre in questo testo scrivi che il corpo smembrato“caduco e contorto ammonisce un’altra storia”, a quale storia ti riferisci?
IC: Come dicevo, il vero punto della questione non è se mantenere o abbattere un monumento, ma che cosa significano i movimenti sociali che ne determinano la messa in crisi. Sono proprio questi processi a costruire la memoria collettiva che è molto più complessa e stratificata di quella che viene perpetuata dal singolo oggetto celebrativo in sé. Nel mio caso, non parlerei di collaborazione creativa con il monumento perché implicherebbe un dialogo a due voci o un compromesso che non cerco. La vedo come una forma di profanazione del suo sistema valoriale.
Attivare delle forme di contro-narrazione del monumento celebrativo significa riarticolare e comprendere la storia di chi ancora oggi subisce le conseguenze delle scellerate lotte di potere, immortalate in chiave patriottico-militare, ma significa anche porre le basi per immaginare “Come vogliamo vivere insieme?” per costruire nuove forme di cooperazione interspecie al di fuori dalla logica antropocentrica. Significa, potenzialmente, coltivare uno sguardo critico sul nostro tempo per scegliere concretamente quali strumenti mettere in campo nelle comunità in cui viviamo, per far valere i desideri di un Noi politico che possa inventare e agire un nuovo spazio pubblico.
EC: Nel libro Giù i monumenti. Una questione aperta, Lisa Parola scrive che il momento prima della vera e propria caduta, quello cosiddetto pre-rivoluzionario, in cui la statua vacilla, ha un portato visivo e performativo potente. Per lei questo è il momento esatto in cui emerge la fragilità della statua ed è anche il punto esatto in cui avviene il cambio di prospettiva. Nel tuo caso, in che modo la prospettiva viene ribaltata? C’è un momento preciso in cui senti che questo sta accadendo?
IC: E’ nel momento in cui si immaginano altre forme di co-esistenza che inizia un’inversione di prospettiva capace di smantellare lo spazio normativo dominante. L’arte nella sua forma più alta è provocatoria, sovversiva, rivoluzionaria, ed è uno strumento immaginifico fortissimo se rimane libero. Tuttavia trovo che non sia sempre facile orientarsi e situarsi, perché in qualsiasi ambito (sociale-politico-culturale) siamo circondati, oltre che da un linguaggio violento, anche da perbenismo, populismo e da operazioni politicamente corrette che rischiano di appiattire ogni tipo di legittimo dissenso o autentica visione, pur di mantenere uno status sociale privilegiato. Come affermano Edouard Louis e Ken Loach in “Dialogo sull’arte e la politica” esiste un estabilishment anche nel mondo della cultura che è necessario mettere sempre in discussione.
EC: Artisti come Hoheisel – ma penso anche alla pratica del wrapping di monumenti portata avanti da Christo e Jeanne-Claude – hanno dato vita a strategie di contro-monumentalizzazione. In quanto artista, se dovessero oggi commissionarti la realizzazione di un monumento – o di un “contromonumento” – su quali elementi lavoreresti? Quali principi riterresti fondamentale includere nella tua opera? Inoltre, pensi sia opportuno decretare la fine del monumento oppure questo può tornare ad avere senso in forme e modi diversi?
IC: Bè, come non ricordare la straordinaria operazione di Hoheisel che nel 1995 in occasione di una committenza pubblica in Germania per un “memoriale agli ebrei uccisi in Europa” realizza una fontana sommersa piuttosto che ergere un mausoleo verticale! La potenza poetica di quest’opera è tangibile senza imporsi su alcuna soggettività e come dice lo stesso artista: “The sunken fountain is not the memorial at all. It is only history turned into a pedestal, an invitation to passersby who stand upon it to search for the memorial in their own heads. For only there is the memorial to be found” (H. Hoheisel). Allora mi chiedo, un monumento può essere vivo, mutante, collettivo? Perché non immaginare nuove forme di narrazione con-temporanee che tengano conto dei contesti socio-politici attuali?
Il contro-monumento che realizzerei sarebbe proprio quell’azione che racconto nella lettera aperta Cari Corpi Vivi… che ho pubblicamente lanciato online su roots&routes come una proposta: fare dell’atto collettivo di calcare e indossare le pelli vuote dei giganti corpi celebrativi una organica, fluida e ludica forma scultorea di riappropriazione e ri-narrazione della storia. Immagino che questo primo gesto che ho sperimentato con materiali effimeri, possa diventare una vera e propria performance in cui la memoria venga praticata, letteralmente indossata e interpretata dai corpi vivi e non sia relegata ad un nostalgico e retorico riferimento al passato concluso. Le pelli vuote diventerebbero così costumi di scena adagiati o meglio deposti su singoli piedistalli ad altezza d’uomo, forme scultoree imperfette, decadenti e sovradimensionate che trasformerebbero il corpo in una sorta di anti-eroe organico, goffo, mostruoso.
EC: Conservazione, restauro e valorizzazione non sono mai azioni neutre: viene necessariamente accentuata una narrazione a discapito delle altre. Nel contesto odierno, quello di un’arte che si fa globale, quale ruolo dovrebbe assumere l’istituzione culturale all’interno di tale dibattito? E qual è per te il significato di patrimonio culturale oggi?
IC: Se parliamo di istituzioni non come un’entità astratta e generica (l’istituzione culturale) ma come un sistema organico di persone che hanno, non solo un ruolo di rappresentanza, ma anche decisionale e con un proprio orientamento politico rispetto ai siti che ospitano opere d’arte, capiamo che esistono diverse modalità di agire all’interno delle istituzioni e in particolare nell’ambito culturale a livello globale, che può essere volto all’apertura, all’accoglienza, allo scambio, al dibattito critico oppure alla normativizzazione, al controllo, alla repressione, al nazionalismo identitario.
Personalmente sogno rappresentati capaci di mettere in discussione le istituzioni stesse, di creare spazi per il dibattito pubblico e laboratori urbani, di supportare pratiche di ricerca a lungo termine, di sostenere il lavoro degli artisti senza alcuna etichetta di razza, sesso, identità, religione, estrazione sociale. Rappresentanti che lavorino per un patrimonio culturale inclusivo e plurale piuttosto che esclusivo ed elitario; un bene comune che sia un luogo del lavoro e del pensiero sempre più accessibile.
Immagini @Maghweb
La lettera aperta a cui si fa riferimento in questa intervista può essere consultata a questo link: https://www.roots-routes.org/cari-corpi-vivi-di-irene-coppola/.