Nei primi mesi dell’anno 2025, Fulvia Larena ha condotto ricerche su cibo, vino e adattamento culturale al cambiamento climatico nelle aree insulari del Mediterraneo. Attraverso analisi ecocritiche e partecipative, l’obiettivo della residenza, curata da Izabela Moren (Fondazione Studio Rizoma), era quello di sviluppare strumenti culturali e artistici in grado di collegare scienza, arte e società per promuovere soluzioni innovative e inclusive. In questa discussione con Yolenn Farges, discutono ed esplorano le intersezioni tra arte, sostenibilità e pesca nel contesto del Mediterraneo. Fulvia Larena evidenzia come il cibo sia una lente attraverso cui comprendere la nostra relazione con il mondo, rivelando le complessità delle dinamiche sociali e ambientali. In particolare, si concentra sulle sfide affrontate dai pescatori artigianali nelle Isole Eolie, dove il turismo eccessivo e la pesca industriale minacciano le pratiche tradizionali e l’ecosistema marino. L’intervista evidenzia anche le iniziative locali che promuovono la biodiversità e le filiere corte, cercando di preservare l’identità culturale e ambientale delle isole.
Yolenn Farges: Qual è il tuo rapporto personale con il cibo del mare, e con la cucina in generale? Come è venuto a mescolarsi con la tua ricerca?
Fulvia Larena: Credo che il cibo sia una lente attraverso cui possiamo comprendere il nostro rapporto con il mondo. Il modo in cui la materia alimentare è prodotta, lavorata, distribuita e consumata modella la società e riflette le dinamiche sociali e la relazione con l’ambiente. Spesso diamo per scontato ciò che abbiamo nel piatto: da dove proviene, chi lo ha prodotto, in quali condizioni e con quali conseguenze. Esplorare questi passaggi permette di svelare le complessità e le strutture globali che regolano la nostra epoca.
Il cibo è stato il motore dello sviluppo delle società umane. Gli insediamenti si sono formati a partire dalla possibilità di coltivare, cacciare e pescare, tutte attività che hanno il nutrirsi come base dell’esistenza.perché il nutrimento è la base della nostra esistenza. Tuttavia, oggi esso rappresenta anche un indicatore di profonde disuguaglianze economiche e sociali. Le differenze tra le grandi produzioni industriali e le piccole realtà rurali e artigianali sono sempre più marcate. Ciò è particolarmente evidente nel settore della pesca: mentre l’industria ittica continua a generare profitti devastando gli ecosistemi marini, i pescatori artigianali faticano a sopravvivere. In luoghi come le Eolie, l’iper-turismo sta accelerando questo squilibrio: molti pescatori abbandonano la loro attività, convertendo le barche in mezzi per tour turistici – più redditizi e sostenibili economicamente.
La conoscenza del territorio e la ricerca sul campo sono le basi della mia pratica. Il mio lavoro si divide tra una parte di indagine e una di restituzione che avviene in dialogo con artisti le cui pratiche includono l’uso o lo studio del cibo e delle sue componenti sociali e culturali. La ricerca sulle risorse alimentari marine è solo uno dei tanti modi in cui possiamo leggere il mondo. È un avamposto da cui osservare le trasformazioni economiche, ambientali e culturali in atto. Questo stesso approccio può essere applicato a molte altre sfere della nostra società, rivelando connessioni inaspettate e offrendo nuovi strumenti di comprensione.
Y.F: Le isole occupano un posto unico in queste dinamiche. Sono sia luoghi con un’identità culinaria molto forte sia territori particolarmente vulnerabili agli sconvolgimenti ambientali ed economici. Il loro relativo isolamento, un tempo fattore di autonomia, sta diventando una sfida di fronte all’eccessivo sfruttamento delle risorse e alla dipendenza dai circuiti alimentari globalizzati. Come vedi la specificità delle isole nel modo in cui rispondono – o resistono – a questi cambiamenti?
F.V: Le isole Eolie sono depositarie di una forte identità culturale costruita su dinamiche profondamente legate al territorio. Piatti, tecniche e saperi tramandati per generazioni sono testimoni di una storia di adattamento all’ambiente e di valorizzazione del paesaggio – di mare e di terra – e dei suoi frutti. La crescente pressione turistica, i cambiamenti climatici e il difficile rapporto con la pesca industriale stanno alterando queste dinamiche. Le sempre più scarse risorse locali possono bastare per una popolazione in continua decrescita, ma non per le flotte di turisti in continuo aumento. Diventa quindi necessario affidarsi a filiere globalizzate, perdendo il rapporto con il proprio territorio e con il senso della tipicità. Questo modo di procedere non è però diffuso sempre e comunque. Nelle Isole esistono molti esempi virtuosi di attività che provano ad affermarsi al di là del legame di questi luoghi con il turismo; pescatori e agricoltori consapevoli dell’importanza della tutela del paesaggio marino e terrestre, sostenitori di pratiche che promuovono filiere corte e valorizzano la biodiversità locale per contrastare l’omologazione alimentare, ristoratori che conoscono i propri prodotti e sanno come proporli senza dover soddisfare a tutti i costi la domanda turistica, nonché realtà che cercano di dare una vita alle Isole durante tutto l’anno e di tutelare e valorizzare il ruolo ambientale che esse hanno. È il caso di associazioni come Nesos, come il Comitato per l’Area Marina Protetta di Salina, del Cineforum di Lipari, del Magazzino di Mutuo Soccorso (sempre Lipari), e di Palazzo Marchetti a Salina.
Y.F: Il bacino del Mediterraneo è sia un’area in cui la cultura culinaria è intensamente legata al mare, sia uno degli ecosistemi marini più colpiti dall’inquinamento, cambiamenti climatici e pesca eccessiva. Si stima che quasi il 90% degli stock ittici sia sovrasfruttato e alcune specie, come il tonno rosso e il pesce spada, hanno visto le loro popolazioni ridursi drasticamente. La Sicilia, con le sue isole circostanti, la pesca artigianale tradizionale e la dipendenza dal mare, è un luogo emblematico per osservare queste trasformazioni. Quali sono state le zone dove hai sviluppato la tua ricerca durante questa residenza nelle isole Eolie? Hai percepito storie di scomparsa e trasformazione nell’ecosistema marino locale?
F.L: Per la mia ricerca mi sono concentrata sulle isole di Stromboli, Lipari e Salina, selezionate principalmente per la presenza di una comunità residente tutto l’anno. Già tra queste tre isole emergono differenze evidenti a livello strutturale e comunitario, ma le difficoltà affrontate dai pescatori sono comuni ovunque. Nel periodo invernale – durante il quale ho visitato le Eolie – la pesca è estremamente scarsa: spesso i pescatori tornano con appena quattro o cinque pesci per barca, non risparmiando commenti nostalgici come “un tempo calavi una rete e dopo mezz’ora la tiravi su piena”. Quando questo succede, molti preferiscono non vendere neanche il pescato, ma tenerlo per sé e condividerlo con gli amici. La diminuzione degli stock ittici è tangibile ogni giorno, ma non è l’unico problema. Oltre alla scarsità del pescato, il cambiamento dell’ecosistema marino sta trasformando profondamente la struttura dei fondali, con conseguenze ancora più gravi nel lungo periodo. La perdita di complessità degli habitat sommersi e, in particolare, la progressiva scomparsa delle praterie di Posidonia oceanica rappresentano una minaccia critica. Questa pianta marina, fondamentale per l’equilibrio dell’ecosistema, non solo ospita numerose specie ittiche, ma contribuisce anche alla protezione delle coste e alla qualità dell’acqua. La sua regressione, dovuta sia al riscaldamento delle acque che agli ancoraggi non regolamentati e all’inquinamento, sta riducendo le aree di riproduzione per molte specie, aggravando ulteriormente il problema della pesca. Anche la morfologia dei fondali sta cambiando: la perdita di biodiversità e l’alterazione delle catene alimentari stanno semplificando gli ecosistemi, rendendoli meno resilienti alle perturbazioni. I piccoli gamberetti rosa, ad esempio, non sono scomparsi, ma stanno migrando a profondità maggiori a causa dell’aumento delle temperature, rendendo impossibile la loro cattura con le nasse, una tecnica di pesca artigianale tradizionale del Mediterraneo. Allo stesso tempo, specie invasive come il verme cane compromettono ulteriormente le battute di pesca e rappresentano un pericolo per i pescatori.
Y.F: Un altro aspetto che mi preoccupa è l’impatto delle nostre attività non solo sui paesaggi marini, ma anche sullo stile di vita delle persone storicamente e culturalmente legate al mare, le cui abitudini stanno cambiando per adattarsi a un mondo in evoluzione. Sulle isole Eolie, hai osservato una migrazione delle popolazioni di pescatori in risposta all’esaurimento degli stock di pesce?
F.L: La migrazione dalle Isole Eolie va avanti da secoli. La prima grande migrazione è stata a causa della fillossera alla fine dell’Ottocento, un parassita che devastò le vigne. Si svuotarono campi e produzioni locali e la popolazione prese le rotte dell’America latina e soprattutto dell’Australia. È impressionante accorgersi di come quasi ogni famiglia abbia almeno un parente in Australia! Oggi, come in molte altre isole e aree rurali d’Italia, la migrazione continua a ritmi sostenuti. L’impoverimento degli stock ittici è sicuramente uno dei fattori chiave: la pesca, che un tempo rappresentava una delle principali fonti di sostentamento, è diventata un’attività sempre più difficile, poco redditizia e poco sostenibile. I pescatori più anziani stanno terminando la loro carriera, mentre le nuove generazioni, quando hanno la possibilità, spesso abbandonano non solo l’attività di famiglia, ma anche il loro luogo di nascita. Esistono tuttavia delle eccezioni. Sia a Stromboli che a Salina ho incontrato giovani pescatori che, consapevoli delle difficoltà, hanno scelto di restare impegnandosi attivamente nella sensibilizzazione e nella divulgazione, cercando di promuovere un approccio più sostenibile alla pesca.
Y.F: Alle Isole Eolie, hai osservato che alcuni pesci tradizionalmente utilizzati in alcune ricette continuano a essere cucinati, anche se non si trovano più nelle acque locali. Ciò solleva interrogativi sul rapporto con le nostre abitudini e con le esigenze del turismo, in termini di adattamento al cambiamento climatico. Rivela la tensione tra una memoria culinaria radicata e una realtà marina che cambia. Durante e dopo il tuo lavoro di ricerca, come hai visto questo rapporto tra la persistenza delle pratiche alimentari e l’evoluzione degli ecosistemi marini?
F.L: Non solo in Italia, ma in varie città del Mediterraneo la pesca di specie aliene viene ancora vista esclusivamente come un problema, come si evince dai prezzi di mercato di queste specie: il granchio blu in Tunisia e in Italia, il pesce scorpione a Cipro. Queste specie non vengono integrate nelle filiere di produzione locale e vengono vendute a prezzi bassissimi, quasi come se fossero una piaga da cui liberarsi. I pescatori, quindi, spesso non le vendono e se le portano a casa per consumarle con la famiglia e gli amici. Tuttavia, non sono incentivati a pescare queste specie, poiché non hanno un mercato. Questo crea un paradosso e un cortocircuito: proprio le specie che avrebbero più bisogno di essere pescate vengono lasciate in mare. Tutto ciò accade perché non siamo in grado di rispondere attivamente a ecosistemi che cambiano rapidamente a causa delle nostre azioni. Continuiamo a insistere su tradizioni che non hanno più alcun legame con il paesaggio, rendendo urgente la domanda su cos’è la tradizione.
Y.F: Mi sembra che il cibo e il modo in cui lo produciamo e lo consumiamo possa essere uno strumento accessibile di azione individuale e collettiva per costruire resilienza/resistenza, una leva per la riparazione ecologica. Scegliere di mangiare specie invasive piuttosto che specie in via di estinzione, ad esempio, o riscoprire pratiche come la raccolta di alghe o la coltivazione di molluschi, può aiutare a riequilibrare gli ecosistemi. Una delle dimensioni del tuo lavoro sta nell’intrecciare questi temi alla pratica culinaria di divers3 artist3. Potresti parlarci della food performance che presenterai all’Ecomuseo del Mare di Palermo durante il festival EarthDay il 10 aprile 2025? Come hai pensato questo momento? Cosa succederà in quell’occasione?
F.V: Se è vero che il cibo può essere la lente per comprendere le complessità del mondo, sia a livello di ricerca che di osservazione, esso può anche diventare un medium di divulgazione e sperimentazione. Il cibo ha un potente potere aggregativo e comunicativo – è facile entrare in connessione con gli altri attraverso di esso. Creare momenti partecipativi, in cui l’atto principale è mangiare, ci permette di partire da un’esperienza personale ma allo stesso tempo condivisa per aprire discussioni su temi più ampi. In occasione dell’Earth Day Festival, il 10 aprile 2025, presenterò una food performance con Yolenn Farges all’Ecomuseo del Mare di Palermo, un luogo di straordinaria rilevanza in questa riflessione. Durante l’evento, attraverso una serie di assaggi e piatti proposti, guideremo una discussione sulle tematiche emerse dalla ricerca insieme a degli invitati, esplorando come il cibo possa raccontare la nostra relazione con l’ambiente, la tradizione e il cambiamento. L’obiettivo è quello di stimolare un dialogo profondo, dove il cibo non è solo un alimento, ma anche un attivatore di pensiero e di consapevolezza collettiva e critica.
Y.F: L’artista e cuoca Tiphaine Calmettes esplora come la cucina possa diventare un atto artistico e politico, in cui ogni ingrediente e gesto raccontano una storia ecologica, sociale ed economica. Nelle sue performance, trasforma il cucinare e il mangiare in uno spazio di riflessione collettiva, invitando i partecipanti a interrogarsi sul loro rapporto con il cibo e l’ambiente. Utilizzando specie marine disponibili e/o a basso impatto ecologico, offrendo strumenti concreti per una rinascita sostenibile, insegnando come sostituire alcune specie con altre e come cucinare in modo diverso, proponendo buone pratiche e ricette rigenerative. Per me il pasto è uno spazio di discussione e azione, dove l’atto del mangiare è sia intimo che politico, poiché accogliamo l’alterità nel nostro corpo e mettiamo in discussione scelte e abitudini. Organizzare un pasto o un evento culinario crea uno spazio di condivisione non solo di cibo, ma anche di idee e soluzioni. Per te, la performance può essere uno spazio di riflessione collettiva o un’esperienza sensoriale individuale che apre a una nuova consapevolezza?
F.L: La performance culinaria, come forma di riflessione collettiva, mette in atto un potente intreccio tra l’intimità dell’atto del mangiare e la dimensione politica e sociale che il cibo incarna.Osservando lavori quali Enemy Kitchen di Michael Rakowitz, possiamo vedere come il cibo diventi un mezzo per interrogarsi su conflitti politici, identità culturale e questioni sociali urgenti. In questi casi, la tavola non è solo un luogo di nutrimento, ma un vero e proprio spazio di discussione e di azione. Il cibo racconta storie che vanno oltre la semplice preparazione di un piatto. Credo che il cibo sia legato a un’esperienza che trascende il gusto, portando con sé dimensioni storiche, culturali e sociali. Allo stesso tempo le ricette possono diventare indicatori di contesti economici e sociali, e il cibo può essere una lente per osservare le disuguaglianze e le dinamiche di consumo. O ancora, in progetti artistici come il film “Foragers” di Jumana Manna, il cibo può diventare simbolo di resistenza e denuncia. Manna utilizza la raccolta delle erbe spontanee come mezzo per raccontare la storia di repressione politica e culturale delle comunità palestinesi. Attraverso la convivialità, si può stimolare un dialogo collettivo, utilizzando la preparazione e il consumo di un piatto come catalizzatori per una discussione su temi urgenti e complessi. Possiamo partire da una tavola condivisa – come ci insegna Kelly Donati – per costruire una relazione più sostenibile con il mondo, mettendo il cibo al centro di una riflessione critica e partecipativa.
Y.F: Pensatori come Donna Haraway offrono strumenti concreti di rinascita per ripensare il nostro rapporto con gli esseri viventi. In “Staying with the Trouble”, l’autrice ci invita a immaginare modi di coesistenza con altre specie e a trovare soluzioni concrete per riparare le nostre relazioni con l’ambiente. Parla di “creare alleanze” tra umani e non umani e di creare narrazioni che ci ispirino ad agire. Nel tuo lavoro vedo questa stessa tensione tra ricerca e azione, nel senso che non ti limiti a documentare i cambiamenti ecologici in Sicilia ma inviti alla riflessione, alla discussione e forse anche all’azione attraverso performance e pratiche alimentari. Come vedi questa transizione tra ricerca e azione nel tuo lavoro?
F.L: Più che di transizione, parlerei di coesistenza. Le ricerche scientifiche hanno da anni messo in luce le problematiche legate al nostro rapporto con l’ambiente, eppure gran parte della popolazione, pur essendo potenzialmente consapevole dei cambiamenti, non possiede ancora gli strumenti per comprendere appieno la gravità e le implicazioni quotidiane di tali trasformazioni. Per questo motivo, credo che la progettazione di momenti di scambio che coinvolgono pratiche artistiche abbia un potenziale per portare questi messaggi a un pubblico più vasto. Il confronto con esperti e addetti ai lavori è cruciale, ma non deve esaurirsi in sé stesso. È fondamentale che questo dialogo si allarghi, fornendo gli strumenti critici necessari a tutta la comunità. In questo senso, l’arte e la scienza devono collaborare strettamente, per trasformarsi in strumenti di sensibilizzazione e di azione concreta. Nel mio lavoro, un testo che considero fondamentale, oltre a quello di Donna Haraway, è “Il paesaggio è un mostro” di Annalisa Metta, per la sua riflessione sulla relazione tra uomo e paesaggio. L’uomo fa parte del paesaggio e molti ambienti che crediamo naturali o intatti sono in realtà il risultato delle azioni antropiche. Un esempio evidente sono i campi coltivati che pure spesso idealizziamo come paesaggi selvaggi, o le montagne, luoghi invece modellati e alterati dalla presenza umana fin già dal’800. Costruire una relazione interdipendente con ciò che ci circonda, basata su un approccio di scambio piuttosto che di sfruttamento è ciò a cui dovremmo tendere. L’idea di natura incontaminata può allontanarci dalla comprensione profonda dei luoghi che abitiamo e, alla lunga, ci impedisce di stabilire una connessione autentica con l’ambiente. Per me cucinare e mangiare insieme sono momenti di condivisione che permettono di riflettere sull’importanza delle scelte quotidiane e sul legame profondo che esiste tra ciò che consumiamo e l’ambiente che ci circonda.
Fulvia Larena (Roma, 1995) si occupa di ricerca, progettazione culturale e produzione di eventi e contenuti artistico-culturali. Ha lavorato in realtà più indipendenti e in enti istituzionali.
La sua ricerca guarda al cibo come un efficace dispositivo per esplorare il mondo e leggerne la complessità secondo uno sguardo radicato nei territori e nei loro regionalismi. Si occupa quindi di pratiche artistiche e progetti visivi che studiano le controversie della società iperproduttiva contemporanea attraverso il cibo e danno vita a dialoghi espansi tra teorie e usi.
Collabora con il collettivo Tocia! Cucina e comunità di Venezia con cui svolge ricerche incentrate su comunità, convivialità, cibo e ambiente. Segue la ricerca del duo artistico-agricolo Aterraterra (Luca Cinquemani, Fabio Aranzulla) di Palermo.
Yolenn Farges (1994) vive e lavora tra Palermo e Belle-île-en-mer. Tra arte, scienza e cucina, Yolenn lavora per creare una rete porosa tra esseri coesistenti e i loro ecosistemi in cambiamento, considerando la creazione attraverso contaminazione e collaborazione. Il suo lavoro è anche un luogo di circolazione di pensieri, trasmissione di conoscenze, dove parole e scambi agiscono come un ecosistema sociale e politico. Le sue installazioni, spesso attivate da performance partecipative, riuniscono funghi, batteri, alghe in propagazione e altre specie compagne. Yolenn sta attualmente sviluppando Intersezioni Mediterranee, una ricerca a lungo termine in collaborazione con Fondazione Studio Rizoma.