Il suono come metodo: pratiche ecologiche e politiche dell’ascolto – Giorgio Mega in conversazione con Manfredi Clemente

In questa conversazione, Giorgio Mega dialoga con Manfredi Clemente dopo la sua residenza a Fondazione Studio Rizoma. Partendo da Horoi, progetto sonoro e installazione, approfondiscono i nodi concettuali e politici che attraversano la pratica artistica di Manfredi Clemente: il suono come strumento relazionale, l’ecologia come pensiero complesso, l’arte come mezzo e non come fine.

 

 

Giorgio Mega: Quando abbiamo presentato Horoi, progetto e installazione sonora, c’erano veramente troppe cose da raccontare per poter andare in profondità a toccare concetti e valori che sono alla base della tua ricerca e della tua pratica al di là di questo specifico intervento. Andando spediti al centro della questione, provo a chiederti adesso cosa pensi di e della relazione tra: suono, ecologia, e politica. Partiamo dalla prima intersezione: l’ecologia sonora è una disciplina specifica e già storicizzata, ma spesso considerata più dal lato della ricerca (se non solo accademica) che dal punto di vista della pratica. Cosa vuol dire per te che una pratica sonora è una pratica ecologica?

 

Manfredi Clemente: Potrei rispondere a questa domanda in molti modi, tutti parzialmente corretti ma, presi singolarmente, inevitabilmente insufficienti. Per questo motivo, preferisco iniziare descrivendo il valore che il suono ha per me e per la mia pratica. Credo che il suono ci ponga in una modalità di relazione col mondo molto specifica e molto sottovalutata. Al contrario della vista, che per ovvie limitazioni ottiche è un senso che deve “tenere la distanza” dal mondo (se avviciniamo troppo un oggetto all’occhio non mettiamo più a fuoco), il suono rende intima la distanza. La sua natura vibrazionale coinvolge il sistema timpanico e il corpo intero: il suono ci attraversa, ci fa risuonare, mette in relazione profonda ciò che è lontano e ciò che è vicino. Questa fisicità così intima si traduce, per me, in una capacità del suono di porci nel mondo in un senso unico e estremamente significativo: il suono permette all’“altro” di raggiungerci, di toccarci, nonostante la distanza. Proprio per questa sua dimensione primaria — fisica e spaziale — ritengo che il suono possa avere un ruolo centrale nel rappresentare e nutrire pratiche relazionali, sia su piani tangibili (territori, ambienti, individui), sia su piani immateriali ma altrettanto reali (come lo spazio sociale o politico). Quando presento un’opera in uno spazio, modifico quell’ambiente e ho la potenzialità di portare chi quell’ambiente lo vive a riscrivere almeno temporaneamente la propria relazione con il mondo. Questa potenzialità aumenta se il processo di realizzazione dell’opera è anch’esso relazionale, implicando l’ascolto reciproco di luoghi e persone, di oggetti, di realtà. Le modalità in cui questa potenzialità può manifestarsi sono molteplici, dipendono profondamente dall’opera e dal processo che l’ha generata. È difficile generalizzare, ma si può almeno provare a immaginare la complessa rete di relazioni che un percorso simile è in grado di attivare. In un lavoro come Horoi non ho pensato il suono come fine ultimo della mia indagine sul territorio, ma l’ho inteso come strumento e metodo di analisi e ricerca, proprio in virtù di questa sua potenzialità straordinaria. Un metodo di indagine e realizzazione delle relazioni presenti e caratterizzanti un ambiente è un metodo ecologico. Un processo che mette quell’indagine in mostra, concentrando anche solo momentaneamente l’attenzione di un pubblico su specifici temi legati alle relazioni ambientali indagate, è un processo politico.

 

G.M.: Quindi diciamo che parlando di ognuno di questi elementi è inevitabile considerare i loro aspetti relazionali, sia a livello concettuale sia come dici a livello di pratiche che comprendono e inducono un contatto e uno scambio con altri umani e non-umani. A questo punto quindi ti chiederei di parlarmi di ecologia: al contrario del suono è un piano di lettura degli ambienti che viene citato sempre più spesso, e a volte in modi molto strumentali e/o superficiali. Cosa è invece l’ecologia per te se presa “sul serio”?

 

M.C.: Voglio pensare che gran parte dell’attuale successo del termine ecologia, oltre che dall’emergenza legata ai cambiamenti climatici, derivi dal fatto che, di fronte ai continui attacchi al pensiero critico — spesso fondati sulla semplificazione dei fenomeni sociali e politici — si avverta con forza l’esigenza di un pensiero complesso. Credo che le attuali narrative neoliberiste e autoritarie abbiano bisogno di mantenersi su una superficie di significato, evitando la profondità del senso – fantasmagoria e reificazione direbbe forse qualcuno -, e che l’ecologia possa offrire spunti di reazione a questa tendenza. Alla tua domanda posso rispondere che il pensiero ecologico è per me quello in grado di leggere il mondo su due piani contemporaneamente: l’orizzontale e il verticale. Come nella polifonia antica, in cui linee melodiche autonome procedevano indipendenti pur generando armonie verticali, così nei territori, nei paesaggi e, più in generale, negli spazi che abitiamo, si intrecciano percorsi indipendenti ma interconnessi, dotati di una ricca complessità individuale e al contempo di una straordinaria capacità — e necessità — di allinearsi simbioticamente ad altri percorsi paralleli, altrettanto complessi. Questi allineamenti, come dice bene Anna Tsing, sono spesso estemporanei, fragili e precari, ma cogliere quegli istanti di verticalità è di fondamentale importanza nella comprensione profonda della realtà. Una lettura che tenga conto di orizzontale e verticale e delle precarietà implicite a questi rapporti è un’analisi ecologica della realtà. E penso che un simile approccio non debba limitarsi allo studio degli ecosistemi in senso strettamente biologico, né confinarsi ad ambienti specifici — la città, il bosco… — ma debba invece abbracciare forme che siano capaci di comprendere e collegare quei processi di produzione dello spazio sociale, individuati già parecchio tempo fa da Henri Lefebvre, con l’analisi e la lettura del paesaggio e degli ambienti, stabilendo connessioni continue tra particolare e generale, tangibile e intangibile, concreto e astratto. Penso anche che sia compito del pensiero ecologico mostrare come le alterazioni degli ecosistemi siano meccanismi perenni, evidenziandone le criticità (certe devastanti) ma anche sottolineando le opportunità evolutive che creano. E anche, perché no, creare dei modelli positivi, aprire a narrative differenti, prendendo a riferimento fenomeni di interconnessione ignorati o dati per scontati. Ed è anche con questo taglio, penso, che l’arte può portare il proprio contributo. Anzi, credo lo stia già facendo, trasformandosi e, come dicevo prima, diventando metodo e mezzo più che fine. 

 

 

G.M.: Sono d’accordo con te che un approccio trasversale e profondo, e aggiungerei vicino al vissuto, dia all’ecologia più senso. E ti ringrazio per l’assist finale, quando dici che l’arte sta diventando più “metodo e mezzo che non fine”. Questo ci porta dritto al terzo concetto su cui volevo interrogare la tua pratica e il tuo pensiero, quello della politica. Anche qua certamente c’è politica e politica, come per l’ecologia ci sono azioni di facciata quando non di greenwashing. Ma l’annosa – forse malposta – questione di quanto l’arte sia politica di per sé, o quanto debba esserne al servizio, che tipo di spunti di riflessione possono essere in un tempo in cui è sempre più comune (in particolar modo tra chi si occupa o preoccupa di questi temi) una sensazione di impotenza e di ingiustizia di fronte a una cecità disarmante del potere, che coinvolge sì le spiraloidi politiche ambientali ma addirittura un genocidio in atto e in diretta? Con tali elefanti nelle stanze della nostra mente, cosa si può fare con l’arte come mezzo e non come fine? E pensi che l’arte debba sempre avere questo tipo di copertura diplomatica, di passaporto?

 

M.C.: Mi pare fosse Colin Ward a parlare dell’anarchismo come di un idealismo necessario, qualcosa di diffuso, pervasivo, una tensione interna alla società stessa che riemerge in una miriade di forme spontanee. Anche quando non viene nominato esplicitamente, è come se alimentasse tutte quelle iniziative dal basso, orizzontali, che ci aiutano a tenere viva una certa capacità collettiva di fare da contrappeso agli accumuli di potere. Questa tensione continua può sembrare faticosa, ma è anche quella che spinge all’azione, che tiene acceso il desiderio di attivare alternative al modello piramidale e, soprattutto, esiste come dimensione spontanea dell’essere umano in società. Tornando al punto della tua domanda: l’arte è sempre stata politica. E per gran parte della sua storia è stata molto vicina al potere, ne è stata espressione, quasi un’estensione. Anche oggi, spesso l’arte continua a parlare il linguaggio di una classe dominante, rinchiusa in una bolla che, per come funziona, finisce per essere escludente. Ecco, io credo che anche dentro il mondo dell’arte sia presente quella tensione di cui parlava Ward e che vada alimentata. Serve mettere in campo pratiche che vadano in direzione opposta all’accumulo di potere, che spingano verso l’orizzontale. Pratiche capaci di generare effetti anche fuori dal sistema dell’arte, che riescano a incidere nel sociale, manifestando almeno l’intenzione di lanciare un arpione contro il verticale, e poi tirare per tenerlo basso, al suolo. Personalmente, la strada che sto cercando – e che so di condividere con tanti altri – è quella di un’arte che metta al centro le relazioni, l’ecologia, l’indagine sui territori, il socio-politico e che viva dei suoi processi di attivazione ancor prima che della realizzazione di oggetti estetici; di un’arte che si muova dentro quella rete di fatti e connessioni di cui parlavamo prima e che metta in correlazione continua estetica ed etica, non intendendo il primo termine semplicemente come “discussione sul bello”, ma nel suo senso originale di indagine della dimensione percettiva dell’essere umano nel mondo. Se riusciamo a orientare il processo creativo in questa direzione, allora sì, l’arte può davvero partecipare a quella tensione sociale, può immaginare di contribuire a qualcosa di più grande (come ha già fatto in passato e come fa in molti casi attorno a noi). Per questo parlo del suono più come mezzo che fine, perché cerco pratiche in cui il vero valore stia nella dimensione relazionale del fare, e nei processi partecipativi che questo può implicare. L’opera in sé credo possa avere il valore di cui parlavo prima: è un momento di riconfigurazione temporanea della realtà, e in quanto tale ha una grande potenzialità, può dire tanto; ma come è stato in molta arte del secondo ‘900, bisogna che sia lì anche a testimoniare il processo, rendendo evidenti gli approcci ecologici e intersezionali di cui parlavo, e non esclusivamente come “bell’oggetto” né tantomeno come esercizio tecnico o tecnologico.