Per Elena Corradi
« Ci sono ancora semi da raccogliere, e spazio nella sacca delle stelle. »
Ursula K. Le Guin
Palermo ha conosciuto un’espansione urbana rapida e brutale dopo che il suo centro storico è stato duramente colpito dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e, qualche anno più tardi, dal famoso terremoto del Belice* . Sono questi gli eventi maggiori che hanno portato a una crisi abitativa da cui politici e imprenditori locali potevano trarre importanti guadagni in breve tempo: improvvisamente c’era bisogno di spazio. Il territorio su cui è stata fondata Palermo è circondato da montagne da un lato e dal mare dall’altro. Protetta e fertile, questa piana è stata per secoli ricca di giardini e agrumeti grazie all’intervento degli Arabi che sapevano progettare sistemi avanzati di gestione dell’acqua.
Quando cominciarono a sorgere cantieri a colpi di piani regolatori approvati dalla sera alla mattina, il paesaggio della
cosiddetta “Conca d’oro” si trasformò radicalmente. Mi sono realmente interessata a questo mito evocativo di un paradiso perduto quando ho scoperto che un centro commerciale costruito nel 2011 è stato a sua volta chiamato “Conca d’oro”. Questo affianca il quartiere ZEN nella periferia nord di Palermo, dove migliaia di persone si sono trasferite in massa dal centro della città tra gli anni ’60 e ’70, proprio nel quadro di quella crisi abitativa menzionata sopra. Come artista visiva, mi sono sentita interpellata dal senso di confusione che aleggia sul significato di questo nome e dall’estrema diversità delle immagini che esso convoca.
Attraverso quali operazioni un centro commerciale richiamerebbe degli agrumeti che non esistono più? Che cos’è la “Conca d’oro” per i giovani che non hanno potuto conoscere ciò che c’era prima? E per chi c’era prima, cosa significa “Conca d’oro” oggi? Ma anche: come raccontare questo territorio complesso, fisico e immaginario, senza appropriarsi di una storia che appartiene a qualcun altro? Con il sostegno di Studio Rizoma, e grazie alla preziosa collaborazione di un’associazione locale, ho potuto coinvolgere un gruppo di giovani del quartiere ZEN in un’esplorazione collettiva del loro quartiere attraverso la pratica del soundwalking. Il suono mi è sembrato uno strumento interessante per cercare di attivare una narrazione altra di questo luogo così particolare, lontana dalle immagini degradanti diffuse dai media. Ispirate alle pratiche femministe della cartografia radicale – o counter-mapping – e alle esplorazioni urbane condotte dal collettivo italiano Stalker, queste passeggiate sonore vogliono incoraggiare un approccio allo spazio che include l’esperienza di coloro che lo abitano, lo utilizzano e lo attraversano quotidianamente.
Per tre settimane i ragazzi e io ci siamo incontrati regolarmente. La nostra prima sessione di lavoro si è concentrata sulla creazione di una mappa da seguire, tracciando la traiettoria principale delle nostre passeggiate sonore. I ragazzi hanno suggerito liberamente tutti i luoghi che consideravano rilevanti per diversi motivi: tra questi, il centro commerciale “Conca d’oro” è stato inserito al centro della nostra esplorazione. “È il nostro posto”, mi racconta una ragazza, “quello dove usciamo con gli amici, festeggiamo i nostri compleanni o semplicemente facciamo shopping. È la costa della nostra isola”. Poi abbiamo iniziato a uscire e a visitare ognuno di questi luoghi che i ragazzi descrivevano attraverso il loro uso personale o, nel caso di luoghi abbandonati, attraverso le storie di cui avevano sentito parlare o, infine, chiedendosi in cosa consistesse un futuro desiderabile per loro. L’approccio partecipativo del progetto ha portato
a un uso attivo e condiviso dei microfoni, in modo tale che tutti potessero registrare suoni, voci e interviste. Molte cose sono accadute anche mentre ci spostavamo da un luogo all’altro (l’artista Hamish Fulton suggerisce che l’atto stesso di camminare sia parte dell’opera). Alla fine di ogni sessione mi trovavo a dover gestire molte ore di registrazioni provenienti dai vari microfoni e solo in quel momento scoprivo tutte le storie e i micro-eventi che magari sfuggivano durante le uscite. Ogni volta sentivo di avere un accesso più profondo alla prospettiva dei ragazzi attraverso le loro stesse voci. E le loro voci sono tanto preziose quanto abitualmente inascoltate.
La narrazione mainstream del quartiere ZEN proviene dai media e dalle istituzioni. In altre parole, proviene da un centro simbolico e si tratta di una narrazione “sui” piuttosto che “dai” margini della città. In questo processo abbiamo cercato di invertire il punto di vista e di mettere in discussione la pretesa neutralità di qualsiasi discorso. Il risultato è l’audio-documentario “A Possible Landscape”, un racconto corale che mira a fornire un’esperienza soggettiva situata nello spazio e che intende mettere in discussione la dicotomia centro-margine, con un’attenzione particolare alla memoria dei luoghi e al loro possibile futuro. Le relazioni tra paesaggio, linguaggio e memoria sono liquide. Una stessa parola può veicolare immagini diverse nel tempo ed è proprio infiltrandoci nel suo continuo mutare che riusciremo forse a immaginare le cose in modo diverso.
Elena Corradi è un’artista visiva nata in Italia con base a Marsiglia. Formata in antropologia e in fotografia, nei suoi lavori indaga le complesse relazioni tra luoghi e memoria, sviluppando uno stile documentario che lascia spazio alla narrazione soggettiva. Le combinazioni tra immagini, video e materiali d’archivio vengono spesso utilizzate dall’artista per far emergere molteplici punti di vista, fatti minori, o ancora per proporre strumenti di rilettura critica di eventi storici o fenomeni sociali. I suoi progetti più recenti si svolgono in zone di confine, che siano tra due paesi o tra tessuti urbani e spazi considerati come periferici.