Pray for Seamen è un progetto di ricerca artistica di Francesco Bellina e Stefano Liberti che racconta la situazione dei mari, dei porti e della piccola pesca in Tunisia, Ghana e Sicilia attraverso gli incontri con i pescatori sul campo realizzati nel 2022. Di seguito sono riportati gli estratti dei tre brevi saggi di Stefano Liberti apparsi originariamente nel libro omonimo pubblicato da Cesura Publish.
La mostra è visitabile fino al 24 settembre presso l’Ecomuseo Mare Memoria Viva.
Chi sono gli ultimi pescatori?
Jamestown, Accra – Ghana
Il progresso è il porto cinese che si sta costruendo a poca distanza. Per aprire il cantiere, i pescatori artigianali sono stati sloggiati, le loro baracche rase al suolo. Gli è stato detto che anche loro beneficeranno del nuovo molo, alimentando in loro un’illusione. Ma la promessa somiglia a un raggiro, perché il progetto è concepito esplicitamente per la pesca industriale: ci sono magazzini per lo stoccaggio, per la lavorazione, per l’esportazione. L’evoluzione segna la fine di un’epoca. E accelera la dissoluzione di un mondo: quello dei pescatori artigianali.
Perché i due modelli appaiono intrinsecamente inconciliabili. Non è tanto la convivenza tra barche di forma e natura diversa a marcare l’incompatibilità. Quella si potrebbe gestire: in linea teorica i pescherecci industriali non si possono avvicinare alla costa oltre le dodici miglia marine; ci sono aree riservate ai pescatori artigianali. Le specie che sono autorizzati a catturare sono altre. Il problema è di natura concettuale: i due metodi di pesca sono legati a due modi diversi di vivere il mare. Da sempre per i piccoli pescatori l’oceano dispensa e toglie; è prodigo quando vuole, ma sa anche essere feroce. Per questo va rispettato, tutelato e ascoltato. Per i gestori della pesca industriale il grande mare è invece solo una miniera da cui attingere ricchezze. E magari portarle altrove, dove possono essere valorizzate di più. Così vince chi estrae più rapidamente; chi accumula ricavi; chi sfrutta più impunemente. Con la sua potenza di fuoco, il bagliore del facile profitto, l’illusione baluginante di un arricchimento rapido, il modello industriale ha finito per contaminare il modo di lavorare, di pensare, di vivere il mare che avevano i pescatori artigianali. È riuscito a corrompere una visione del mondo, un modo di agire, un sentire collettivo. E così i piccoli pescatori sono diventati a loro volta i sicari del mare, e in ultima istanza di se stessi.
Isole Kerkennah – Tunisia
Ramdhane Megdiche osserva il mare che prima gli ha dato, poi gli ha tolto tutto. Ha il volto scavato dal sole, la barba grigia e folta, i capelli arruffati e uno sguardo vivace dietro la ragnatela di rughe che gli avvolge gli occhi scuri. Mentre parla esplode a tratti in risate fragorose, con cui tenta di nascondere un fondo di tristezza che gli attraversa il volto come un’ombra. Megdiche ha 61 anni e ha verso il mare un sentimento ambivalente: fiero figlio della prima donna pescatrice dell’isola, la venerata Saida Delali, pescatore a sua volta oggi a riposo, infine padre di un figlio che il mare lo ha attraversato per andarsene in Europa, dove fa una vita ai margini da qualche parte in Francia. Megdiche ha cominciato a pescare a 12 anni perché costretto dal padre. E dopo mezzo secolo prova ancora un sentimento di rammarico misto a rabbia verso quella costrizione, perché da alunno modello avrebbe voluto continuare gli studi e si è trovato invece a vivere una vita che altri hanno scelto per lui. Tale era allora la consuetudine da queste parti: finita la scuola primaria, si andava in barca e si perpetuava il destino di famiglia. Ma questo destino si è interrotto con la sua generazione; quelle successive non ne vogliono sapere di un lavoro che è tanta fatica e poco guadagno e preferiscono inseguire sogni di gloria al di là del mare.
Il mare è ovunque qui, in questo lembo di terra che è Chergui, l’isola principale dell’arcipelago delle Kerkennah: una dozzina di isolotti di cui due soli abitati, Chergui appunto e Gharbi, nominati in base alla loro posizione, orientale il primo, occidentale il secondo, quasi a testimoniare il senso pratico di una collettività per cui i punti cardinali sono tutto o quasi. Qui tutti sono pescatori e lo sono sempre stati: altre attività non esistono. Se vuoi fare altro, devi prendere il traghetto che una decina di volte al giorno collega l’isola occidentale con Sfax, sulla costa tunisina. Oppure fare come il figlio di Ramdhane, trasformarti in un harraga, bruciare i documenti, salire su un barchino e puntare all’isola di Lampedusa, che dista appena 120 chilometri.
Trapani – Sicilia
La crisi di Trapani è anche crisi di quell’ampio spazio che è Il Mediterraneo, che ha perso la sua vocazione di mare di scontri e incontri, di commerci e guerre, di scambi proficui e di omerici saccheggi. Ritrovo di pirati e avventurieri, mercanti e truffatori, cacciatori di corallo e arpionatori di tonni, quel mare è oggi l’ombra di se stesso. E Trapani fulcro di molteplici frontiere, sospesa tra terra e acqua e perennemente in bilico tra l’Europa e l’Africa, ha perso tutta la sua centralità.
È davvero tutto perduto? Non è possibile per Trapani pensare a un rinnovato patto con il proprio mare, che per secoli è stato fonte di vita e di ricchezza, parte integrante e fondamentale della comunità cittadina? Un piano di risanamento promosso dalla Regione siciliana e finanziato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnnr) prevede il restauro e la trasformazione della Colombaia in un centro per esposizioni e convegni. Un altro progetto di ampio respiro punta a ridare vita al lungomare oggi in dissesto, riattivando il porto passeggeri e la darsena dei pescherecci.
Questi progetti vedranno effettivamente la luce? Trapani saprà risorgere dalla caduta e ritrovare le antiche glorie? In un garage proprio dietro il porticciolo, un uomo anziano è impegnato a riparare reti da pesca. È seduto su uno sgabello, solo. In mano ha ago e filo. Il suo lavoro procede a rilento, perché la vista non lo assiste più come un tempo. Ma lui è lì, al calar del sole, impegnato a portare avanti la sua attività contro ogni logica apparente. Nessuno forse userà mai quelle reti e probabilmente gli stessi pescatori non sanno che lui sta lavorando per loro. La sua opera somiglia più che altro alla tessitura di una tela in attesa di tempi migliori. Come Penelope con il prode Ulisse, l’anziano ex pescatore sembra attendere il ritorno di quel mondo che lui aveva conosciuto e di cui lui stesso con il suo lavoro certosino così inattuale è rimasto una delle ultime vestigia.
Francesco Bellina (Trapani, 1989) è un fotografo documentarista di Palermo. Il suo lavoro artistico si concentra principalmente su questioni socio-politiche contemporanee, con particolare attenzione al tema della migrazione.
Stefano Liberti is an Italian journalist. His last book is ‘Terra bruciata. Come la crisi ambientale sta cambiando l’Italia e la nostra vita’ (Rizzoli, 2021). Together with Enrico Parenti he directed the documentary ‘Soyalism’ (2018).
Vincitore del 10° Premio Italian Council del Ministero dei Beni Culturali. Prodotta dalla Fondazione Studio Rizoma, l’opera finale sarà donata all’Ecomuseo Mare Memoria Viva di Palermo.
Artista: Francesco Bellina / Testi e interviste: Stefano Liberti / Curatela e design del progetto: Izabela Anna Moren / Assistente alla fotografia: Giuseppe Scianna / Video: Umberto Santoro / Direttore di produzione: Giorgio Mega / Direzione artistica e allestimento: Studio Forward / Editore: Cesura Publish