Diana Lola Posani, certified deep listening facilitator e sound artist, ha presentato lo scorso aprile la sua performance dal titolo “Scream as if your organs were made of glass”. La tecnica vocale estesa utilizzata nella sua pratica richiama volontariamente diverse tradizioni, dal throat singing della regione di Tuva al Metal, ma è stata sviluppata autonomamente attraverso lo studio dell’inspirazione e l’ascolto profondo delle frequenze della voce.
In seguito alla performance l’artista e Mattia Capelletti, scrittore e curatore indipendente, nonché fellow 2023 di Fondazione Studio Rizoma, hanno avuto una conversazione che riportiamo di seguito. La conversazione è stata un’occasione per parlare anche del libro “Deep Listening – The sound practice of a Composer” di Pauline Oliveros, tradotto in italiano per la prima volta da Diana Lola Posani e pubblicato da Timeo Publishing.
“Scream As If Your Organs Were Made of Glass” è una performance organizzata grazie alla collaborazione tra Aterraterra – fellow 2023 di Studio Rizoma – DOTE Festival e Fondazione Studio Rizoma.
La performance è un collateral event di DOTE Festival, Year of Listening – Listening to Seeds che si svolgerà tra Amsterdam, Palermo e Beirut.
Mattia Capelletti: Diana Lola Posani è una sound artist e curatrice indipendente. Lavora con la voce in quanto punto di partenza per l’ascolto: si muove all’interno del margine che c’è tra l’espressione vocale e l’ascolto della voce. In questo momento si occupa in particolare di performance che uniscono e cercano di trovare un punto di incontro tra suono e poesia.
Partiamo dalla performance di stasera: tu hai utilizzato una tecnica vocale che si chiama growl, associata tradizionalmente all’estetica musicale del black metal, ma che in realtà come tecnica vocale ha delle radici storiche molto più profonde in tante culture popolari nel mondo. È molto interessante che tu abbia utilizzato questa tecnica dal momento in cui, tradizionalmente, nell’immaginario sottoculturale è associata al genere maschile e a un tipo molto specifico di mascolinità.
Mi interessa questo aspetto in relazione alla tua performance: come il growl, ma anche il sussurro per esempio, siano tecniche che agiscono sul timbro facendolo diventare quasi irriconoscibile. In un contesto acusmatico, cioè quando la fonte di un suono non è visibile, questo altera le abituali dinamiche percettive. Nella drammaturgia di questo lavoro c’è questo pensiero?
Diana Lola Posani: Assolutamente sì. Io non ho mai imparato il growl e nemmeno il throat singing, altra tecnica che ha una sonorità abbastanza simile. Sono partita in realtà da alcune mie sperimentazioni con l’inspirazione, al cui interno percepivo un rumore. Più orientavo l’ascolto verso questo rumore più questo diventava grande e a un certo punto è stato come se avessi dato vita ad una mia nuova lingua, fatta di ruggiti. Questo lo dico perché se tentassi di fare throat singing o growl, il modo in cui lo farei sarebbe probabilmente sbagliato a livello tecnico.
Sono partita invece da una tensione totalmente legata all’ascolto e allo stupore nei confronti del suono e da lì si è poi sviluppata una narrativa.
La drammaturgia dell’azione scenica per me è strettamente connessa alla natura stessa del suono, che in questo caso generava una stranissima alienazione. Come se io e il suono non fossimo la stessa cosa.
Il collegamento immediato che è seguito a questa sensazione fisica è stato con il tema della repressione dell’aggressività, che sento fortemente, sia individualmente sia come questione di genere. L’aggressività repressa viene considerata una caratteristica connaturata nella donna quando in realtà è uno squilibrio che ha a che fare con la società e con l’educazione.
Ho quindi iniziato a dialogare con questo ruggito che proveniva da me ma che allo stesso tempo sentivo essere qualcosa di diverso da me e la partitura che ho creato è per certi versi molto semplice, un passaggio da preda a predatore.
Nella performance inizialmente arretro di spalle, preda della mia stessa voce, per poi girarmi e mostrare al pubblico che in realtà sono io il pericolo.
M.C: A me interessa in particolare questo aspetto di come la voce sia allo stesso tempo qualcosa di esteriore e interiore, ovvero ha degli aspetti legati al piacere nel sentire il proprio corpo vibrare e nell’ascoltarsi, ma anche degli aspetti esteriori: in qualche modo la voce ci proietta nel mondo, ci identifica, e allo stesso tempo questa identificazione è stratificata, anche e soprattutto perché si trasforma. Il suono è definito dal registro dell’ambiguo e attraverso la voce, che è nesso identità-linguaggio-corpo, ci si scontra con questo tema immediatamente: cioè nei modi, tutt’altro che lineari, in cui si definisce l’identità tra il soggetto parlante e la sua voce.
Mi interessa moltissimo anche quello che dicevi sull’alienazione. Pensiamo a come ci ascoltiamo: se un giorno ci svegliamo con la raucedine dopo una notte a far festa, non necessariamente ci riconosceremo nella nostra voce. Oppure quando ascoltiamo la nostra voce registrata. Queste sono esperienze umane talmente comuni che ribaltano i paradigmi tradizionali del come la voce viene narrata, di come normalmente se ne parla, cioè della sua supposta relazione di identità con il sé.
Hai parlato di pratiche di ascolto e di come la voce ha un aspetto duplice esteriore. Mi viene da chiederti come sei arrivata tu a queste pratiche di ascolto e come queste hanno influenzato il tuo lavoro da performer. Qual è il nesso tra vocalizzare e ascoltarsi?
D.L.P: Mi colpisce quest’osservazione perché mi rendo conto che l’esplorazione della vocalità che trascende il range del parlato è anche forse un tentativo di metterne da parte l’aspetto biografico per trasformare la voce in qualcosa di più archetipico e assoluto.
Perché nella quotidianità è inevitabile che nell’utilizzare la voce si porti in prima linea la propria identità, che è prima di tutto suono.
Un esercizio che utilizzo spesso come introduzione nei laboratori di deep listening si focalizza proprio su questo legame: nel silenzio dico in ordine sparso il nome di ciascun partecipante e faccio sì che ascoltino la reazione del corpo, la risposta fisica che avviene quando ci sentiamo chiamati.
È un modo molto semplice per rendersi conto di quanto associamo la nostra identità ad uno specifico suono.
Per tornare alla tua domanda, invece, ovvero al rapporto tra ascoltare e vocalizzare, per me è partito tutto dallo studio della funzionalità vocale. Parte del metodo si basa sugli studi di un ricercatore francese, Alfred Tomatis, che parlava del circuito audio-fonatorio, ovvero il principio per cui non si può esprimere con la laringe qualcosa che non si ha già ascoltato.
Questo è stato il punto di partenza per cui negli ultimi anni mi sono dedicata all’ascolto. A partire da questa esigenza tecnica ho poi sentito la necessità di concentrare la mia ricerca anche sull’attivismo legato all’ascolto.
M.C: Interessante quello che dici rispetto al circolo audio-fonatorio, come le voci siano influenzate da tutte le altre voci che sentiamo. Ci sono degli studi, tra l’altro, che dimostrano come l’accento dei bambini sia per lo più formato dai loro pari, cioè dagli altri bambini che frequentano nei primi tre anni di vita, piuttosto che dai genitori. Esistono anche ricerche su come i bambini apprendano il linguaggio in modo simile agli uccelli: sono tutte teorie che vanno un po’ contro l’idea di timbro come proprietà individuale. In realtà le nostre esperienze di tutti i giorni dimostrano il contrario e cioè mettono in discussione l’idea del timbro individuale come qualcosa di essenzialista e biologicamente assegnato.
Ora vorrei farti una domanda specifica su di te e sulla tua pratica. Come percepivi la tua voce prima di incontrare queste pratiche e come la percepisci ora? Che rapporto hai con la tua voce?
D.L.P: Credo che la grande differenza sia stata una acquisizione di consapevolezza. Non avevo mai percepito la mia voce come completamente parte di me, e credo che durante il percorso di ricerca questo sia cambiato moltissimo.
Inizialmente sentivo un senso di spaesamento costante – come quando ascolti la tua voce registrata e non la riconosci –: ora invece è diventata un tutt’uno con la percezione che ho di me stessa.
La voce, estendendosi nello spazio, è qualcosa che influisce nel rapporto con gli altri anche più della propria presenza in senso strettamente corporeo.
E credo che per le donne l’aspetto più complicato di emettere suoni sia proprio questo: la sensazione di riprendersi lo spazio.
È stato un percorso che mi ha portata a non sentirmi imbarazzata nel prendere corpo e spazio anche su un piano più quotidiano.
M.C: A proposito di questo aspetto, come tutta l’arte sonora anche il tuo è un lavoro site-specific, e lo è nel momento in cui il suono si sente nello spazio, occupa spazi, ma anche nel momento in cui reagisce allo spazio. Anche questo va a deragliare certi assunti per cui timbro e voce non cambiano.
Hai parlato anche di questioni di genere quindi passerei ad introdurre una donna che è stata importante per te: vogliamo scomodare Pauline Oliveros?
D.L.P: Il deep listening è una pratica che è stata sviluppata da Pauline Oliveros, una compositrice donna e queer, insieme ad altre due donne, IONE e Heloise Gold. Questo libro nasce come una raccolta di tutto il materiale derivante dalla loro ricerca condivisa. Non definirei infatti il deep listening un metodo perché non ti spiega come dovresti ascoltare ma è una pratica che offre una prospettiva su cosa significa passare dallo stato in cui sentiamo i suoni a quello in cui li ascoltiamo.
Più che essere un training strettamente musicale, è un esercizio d’attenzione, ed è trasversale perchè attira non solo musicisti ma anche più in generale persone interessate alla domanda: cosa significa ascoltare?
M.C: È molto interessante che il sottotitolo del libro sia “la pratica sonora di una compositrice”. Il deep listening nasce ai già ai tempi dell’università: Pauline Oliveros si accorge che gli studenti e le studentesse sembrano non ascoltarsi durante le rispettive pratiche. A questo punto, come compositrice più che come educatrice, decide di fare un’esperienza che porterà a formalizzare la pratica del deep listening: con Panaiotis e Stuart Dempster va a suonare dentro ad una cisterna sotterranea trovata in un luogo dell’America rurale. Dentro alla cisterna il suono torna loro tramite il riverbero dopo circa una ventina di secondi. Tutti i suoi ragionamenti legati al deep listening nascono prima, ma è questa situazione che gli dà un nome. “Deep”, in modo un po’ ironico, perché erano in una cisterna sotterranea, e “listening” perché il loro suonare è reattivo: suonano, si ascoltano e reagiscono.
Lei è è sempre stata molto chiara nel dire che in altre culture musicali non-bianche – per esempio il jazz – l’improvvisazione è basata sul feedback, e quindi esattamente su questa pratica di ascolto e reazione. Lei incorpora l’improvvisazione e l’ascolto in una pratica da compositrice (bianca occidentale) ma non rivolta ai soli compositori, e questa è una cosa stupenda se la pensiamo in un’ottica di apertura e inclusività.
D.L.P: Secondo me è molto interessante anche il fatto che lei ampli la definizione di “compositore”: nel suo lavoro il focus non è sul tipo di espressione creativa finale ma sull’atto percettivo che c’è alla base, che è comune ad ogni essere umano, e che è intrinsecamente compositivo: noi componiamo nel momento in cui ascoltiamo. In questo momento, ad esempio, io e te stiamo percependo suoni diversi nonostante siamo nello stesso paesaggio sonoro e fra due giorni tu ne ricorderai alcuni e io probabilmente altri, e questo è già un atto compositivo. Lei è riuscita a portare la pratica dell’ascolto ad un livello più intuitivo, se vogliamo, ma anche più radicale.
Come dici giustamente tu, lei non ha inventato qualcosa, ha ricordato qualcosa: fare musica in modo non-occidentale molto spesso significa già essere in uno stato di deep listening. Le pratiche di ascolto sono tante e il deep listening è solo una di quelle, ma alla fine si parla della stessa cosa.
E questo aspetto è riscontrabile anche nel fatto che i facilitatori di deep listening possano mettere molto della loro personalità nell’insegnamento. Ovviamente tutti noi ci basiamo su una serie di cose che ci sono state insegnate ma poi ognuno ha il proprio background. Se tu fai un’esperienza con me e poi con un’altra persona, queste potrebbero essere due esperienze molto diverse fra loro, ma sono sempre di Deep Listening.
M.C: Nel caso della performance di stasera, tra l’altro questo, metodo è evidente: mi riferisco all’aspetto della dissonanza nello spazio e all’ascolto dello spazio e all’osservazione di come esso reagisce alla tua voce. Tu parti con un suono e reagisci a questo suono ascoltandoti. Hai voglia di parlare di questa cosa o si svela un mistero?
D.L.P: Assolutamente no, parliamone! La performance, per me, da un certo punto in poi non è più controllabile nel senso che io sento le frequenze, gli armonici, nello spazio e la mia voce segue una direzione di sviluppo rispetto ad un’altra. Questo significa che le mie performance non sono mai uguali e che io da un certo punto in poi non sono più in grado di stabilire cosa accadrà perché molto dipende dalla risonanza del suono nello spazio.
Per certi versi può essere frustrante ma d’altro canto ti permette di evitare tutta una serie di scelte basate su delle considerazioni estetiche che poi vanno a perdere il contatto con il reale, con quello che accade nel qui ed ora. Questo limite è utile per far sì che ogni volta per me sia un rituale pienamente sentito piuttosto che un risultato architettato esclusivamente per il pubblico – in senso negativo, ovviamente.
M.C: Questo è l’aspetto della composizione, per come la intendiamo, che va a scardinare proprio quelle questioni autoriali della composizione. Pensiamo per esempio a L’arte della fuga di Bach, che è una composizione scritta senza indicazioni sulla strumentazione: è una composizione astratta nel senso in cui lo è la matematica, e indipendentemente dallo strumento con cui la si suoni il risultato è perfetto. Questo tipo di pratica sta esattamente all’opposto rispetto a quello di cui parliamo. La pratica del qui e ora va realmente a smascherare la presunta astrazione che nella pedagogia compositiva è data per assodata. C’è, se ci pensiamo, anche una questione ecologica nell’approcciare la musica in questo modo.
D.L.P: Normalmente, nella visione tradizionale della musica è l’interprete che si deve riappropriare dei suoni. Deve prenderli e riabitarli per dar loro un senso. L’umano è l’ultima componente che viene aggiunta nell’astrazione.
In questo caso invece si lavora all’opposto, e c’è sicuramente un aspetto ecologico in questo approccio, per via della correlazione che esiste tra l’ascolto profondo dei suoni e l’ascolto dell’altro. Incarnare l’empatia per me è un atto molto potente perché l’empatia normativizzata, quindi separata dal corpo, avrà sempre delle falde e delle imperfezioni mentre l’empatia deve poter diventare corpo, deve poter attivarsi su un altro livello, più profondo. In questo senso questo lavoro diventa inevitabilmente un’indagine musicale e artistica ma anche una forma di attivismo.
M.C: Pauline Oliveros, nella parte del suo libro relativa alle forme di attenzione, parla dell’ascolto frattale e delle forme di attenzione che possono essere focali o globali. Trovo interessante che gli esempi che fa siano relativi alla voce. Avrebbe potuto usare qualsiasi altro suono ma ha deciso di utilizzare le voci. È interessante perché si spinge verso una dimensione etica, empatica appunto, anche controintuituva e problematica volendo, ma molto interessante. L’esempio che lei riporta è quello della folla ad una partita di baseball: l’ascolto focale è l’ascolto della singola voce mentre quello globale è il mormorio delle voci. Chiama questo tipo di ascolto frattale intendendo che si possa portare a tutti i livelli di scala. Successivamente, Pauline riporta un altro esempio, quello di un rapper, e dice che anche in questo caso puoi ascoltare quello che dice, quindi il linguaggio, oppure la prosodia e la melodia delle parole. Spesso ascoltiamo pezzi rap senza capire le parole e ci concentriamo sulla melodia. Secondo me c’è un aspetto etico in questo livello scalare dell’ascolto, perché ciò significa che una voce contiene tutte le voci. Questo è un concetto che arriva dalla filosofia orientale – anche in parte da quella occidentale se pensiamo a Spinoza, Leibniz, ecc. – quindi dall’idea di coesistenza del collettivo nell’individuale, del macro-cosmico nel micro-cosmico, dell’universale nel molecolare e così via. L’aspetto etico sta nel fatto che, per riuscire ad ascoltare l’altro, si deve partire dall’idea che l’altro è in sé, in qualche modo. Ci sono, per concludere, molti aspetti etici, ecologici e terapeutici, come dicevi tu, della pratica del deep listening, che sono altrettanto importanti.
D.L.P: C’è un termine che io amo tantissimo che Brandon LaBelle, un sound artist e ricercatore dell’ascolto, utilizza per definire l’ascolto: “gioiosa permeabilità”. Questa espressione racchiude esattamente ciò che amo dell’ascolto e trasmette bene l’idea per cui non ci sono realmente limiti nel suono. Nel workshop che farò questo venerdì mi concentrerò in particolare sulla mancanza di confini tra diverse tipologie di suono, tra suoni immaginati, ascoltati, sognati, tra i suoni dentro e i suoni fuori di noi. Non esiste un confine vero e proprio tra un suono che arriva da me e un suono che arriva da te, sempre per il principio del circolo audio-fonatorio di cui parlavamo prima: se io posso emettere soltanto ciò che ho già ascoltato significa che la mia voce è il risultato di tutti i suoni che nella mia vita ho sentito e a questo punto anche di suoni immaginati e di suoni sognati.
Una ricerca molto interessante raccontata da IONE ci dice come le nostre orecchie si attivano ascoltando suoni sognati esattamente come quando siamo svegli e sentiamo dei suoni nella “realtà”. La nostra ricezione del suono, dormendo, è alla pari con la ricezione del suono da svegli e questo significa che la nostra voce contiene realmente tutti i suoni possibili. Ed è molto bello questo aspetto orizzontale di cui parlavi anche tu. Trovo interessante l’accezione di “gioiosa” perché c’è innanzitutto gioia nel riconoscere una completa orizzontalità e nell’appartenenza di tuttx con tutto.